Attraverso i tuoi occhi

Mirko Nasi

Attraverso i tuoi occhi | Mirko Nasi

Un romanzo appassionante fatto di relazioni che possono far precipitare in un baratro o far trovare lo spiraglio di luce da seguire per poter rinascere.


Sinossi

Clarissa, giovane donna che lavora come receptionist in un’azienda di Trento nell’ambiente della moda, adora sentirsi femminile indossando i suoi amatissimi tacchi alti. Sarà per questo che il titolare si permette di farle delle avances? Nel percorso alla ricerca di una consapevolezza interiore che la porterà ad avere rispetto per sé stessa è affiancata da persone che con ruoli e sensibilità diverse la aiuteranno a “guardare con gli occhi dell’altro”. Un romanzo appassionante fatto di relazioni che possono far precipitare in un baratro o far trovare lo spiraglio di luce da seguire per poter rinascere.

Anteprima

In ritardo

Mentre aspetto il bus alla fermata Querce, proprio sotto casa mia, alle 7:00 di una mattinata piovosa e umida, una macchina pensa bene di sfrecciare a tutta velocità e alzarmi uno tsunami di acqua addosso.
Decido di risalire velocemente in casa, non posso di certo presentarmi al lavoro in questo stato!
Salgo in fretta le scale e, fra i tacchi alti e la borsa ingombrante, arrivo trafelata alla porta del mio appartamento. La mia casa è piuttosto piccola: una cucina, un bagno e una camera con un lettone matrimoniale, in caso decidessi di dormire con qualcuno – o qualcuna. Tutto rigorosamente in giallo e rosso, i miei colori preferiti. In qualche modo questi mi rappresentano: il giallo come la mia solarità e il rosso come la passione che metto in tutto ciò che faccio.
Entrata in casa, scorgo con la coda dell’occhio che la mia gatta, Atena, ha rovistato nella spazzatura, spargendo carta e residui di cibo ovunque. In preda alla rabbia, rimprovero Atena, mi tolgo i tacchi e, dato l’odore nauseabondo, spalanco le finestre per arieggiare l’ambiente. Inizio a rassettare e perdo la totale percezione del tempo, cosa che mi accade quando vedo il disordine intorno a me. Soltanto quando con il mocio tocco la borsa da lavoro, avverto un magone in gola. Allora mi precipito in camera, mi rivesto velocemente, richiudo le finestre e, prima di uscire di corsa, lancio un’occhiata e un sorriso ad Atena, che mi guarda dall’alto, appollaiata sul frigo. Nonostante tutto, lei è la mia amica, la mia migliore amica, quella che mi ha visto piangere e ridere e che, per ovvie ragioni, se n’è stata sempre in silenzio.
Corro giù per le scale, un po’ come una supereroina volante, e sbircio l’orologio: sono le 8:30 e io dovrei essere in reception già da un’ora! Mentre aspetto il bus alla solita fermata, tiro fuori lo smartphone e chiamo in azienda.
«Buongiorno, signor Orlando, sono Clarissa. Volevo avvertirla che sono in ritardo a causa…»
Nemmeno il tempo di finire la frase che il signor Orlando, il mio capo, mi riattacca il telefono in faccia, facendomi rimanere come un pesce lesso.
Non è una persona carina, il mio capo. Tutt’altro. Un uomo sulla cinquantina, calvo, con enormi baffi e con qualche chilo di troppo. È da quando lo conosco che indossa sempre gli stessi abiti: camicia bianca, un completo con giacca e pantalone nero, come il suo humor, e scarpe classiche marroni – che stonano con tutto il resto – fornite di tacchetti che annunciano la sua presenza anche da lontano. Quando è nel suo ufficio, ha il vizio di lasciare la giacca sul divanetto e di girare in camicia per tutta l’azienda. L’unica cosa che continua a cambiare è la cravatta, rigorosamente sempre in tinta unita. Un tipo burbero e arrogante, che tratta i suoi dipendenti come fossero pupazzi o bersagli sui quali sfogare la propria rabbia. Mai un cenno gentile, mai un sorriso sincero. Solo rimproveri e offese gratuite. Quando ti guarda, senti il peso della sua anima e i suoi interlocutori fanno di tutto per chiudere il più in fretta possibile la conversazione con lui. È quel genere di uomo dal quale è meglio stare lontano, come spesso mi ricordava mio padre, quando ancora era in vita. Ma ha anche i suoi lati positivi: paga bene – e di questi tempi non è il caso di lamentarsi – e ci tiene aggiornati su tutto ciò che riguarda il nostro lavoro.
La sua azienda, l’“Emerging Stars”, si occupa di ingaggiare modelle e modelli per stilisti di fama mondiale e di organizzare eventi che riguardano il settore della moda.
Io lavoro in reception: mi occupo di cercare candidati o candidate per le sfilate, passo le chiamate ai piani alti, segno gli appuntamenti per il capo, sorrido ai clienti anche quando ho le mie giornate buie.
È capitato più di una volta che mi chiedessero di sfilare per stilisti di un certo spessore o di pubblicizzare qualche brand, ma ho sempre rifiutato. Non è un lavoro che amo molto. Preferisco il contatto con il pubblico e ammetto che, soprattutto all’inizio, ho avuto difficoltà e ho dovuto affrontare i tratti della mia timidezza. Fin da piccola ricordo che, quando mi trovavo in situazioni nuove, tendevo a nascondermi dietro le gambe del mio papà che mi trasmetteva sicurezza e mi insegnava ad affrontare l’ignoto con coraggio. Oggi invece, mi nascondo spesso dietro ai trucchi e agli abiti che indosso, ma sono consapevole che l’apparenza non è tutto. Mi reputo una ragazza tranquilla, solare e a modo. Dico sempre quello che penso e cerco di comportarmi educatamente verso gli altri, come mi hanno insegnato i miei genitori. Mia madre ci teneva molto che dicessi sempre “grazie” o “per favore”, soprattutto davanti a qualche sua nuova amica. Entrambi, avevano cura di farmi capire che siamo tutti uguali e che il rispetto deve essere reciproco. Ho un buon rapporto con la mia fisicità e con la sinuosità del mio corpo. Spesso mi soffermo a guardare il mio volto allo specchio e ogni tanto, quando sono pensierosa, faccio delle buffe facce e inizio a ridere da sola. Amo molto i miei occhi, azzurri e grandi. Il mio naso all’insù, un po’ troppo grande, è la parte che cambierei di me. Ho una certa cura per le mie labbra, che credo siano il punto di forza: carnose e grandi e ne apprezzo la loro forma. I miei capelli di un biondo miele, sono una vera tortura: mi piacciono molto, ma non sono per niente capace di sistemarli come vorrei.
Nonostante la mia timidezza e la mia tranquillità, credo di essere una ragazza che si riesce a relazionare con tutti: mi piace conoscere persone nuove e amo stare in compagnia: per quanto io viva da sola, ammetto che non è una condizione che mi fa impazzire. So che ogni tanto “eccedo” con la solitudine, tanto che, quando ho un problema, preferisco non parlare con nessuno o almeno non lo faccio subito. Ma poi finisco di diventare come una pentola a pressione. So di essere un po’ lunatica, ma non eccessivamente: a volte decido di rimanere a casa nella mia solitudine, ma poi quando succede, finisco con l’annoiarmi e decido quindi di fare qualcosa, anche un semplice giro in città o vedere un’amica. Agisco spesso d’impulso, specialmente quando le cose non mi sono chiare, e questo mi porta anche ad avere dei giudizi affrettati nei confronti delle persone. Ma appena mi calmo, so chiedere scusa se necessario e se ho ragione, cerco di prendermela tutta. Non ho mai approfittato degli altri: cerco di bastare a me stessa e se proprio ho bisogno di qualcosa, sono comunque circondata da pochi amici e amiche intimi che considero “la mia piccola famiglia”.
Adoro le scarpe col tacco. Non indosso mai lo stesso paio di scarpe ed è raro che io non abbia i tacchi ai piedi. Quando sono senza mi sembra quasi di non riuscire a camminare! È un po’ il mio distintivo: a volte ho quasi l’impressione di parlarci. Al lavoro li indosso per decoro, ma sarei anche capace di sbrigare le faccende domestiche su un paio di tacchi vertiginosi e quasi quasi di andarci a letto. I miei amici, qualche Natale fa, hanno trovato in rete un paio di ciabatte da casa con un tacco dieci… È stato un regalo più che gradito!
Mi piace molto camminare, particolarmente in montagna: guardare i panorami e i colori della natura, mi fa sentire bene con me stessa. Uno dei momenti più piacevoli, è quando indosso un paio di cuffiette con un po’ di musica e percorro le strade della città. Spesso mi capita di soffermarmi a osservare i piccoli dettagli di alcuni gesti che la gente compie: per esempio, mi piace guardare il modo di bere delle persone, l’incrocio di sguardi che c’è fra un padre e il suo figlioletto che sta imparando ad andare in bici. Mi soffermo a guardare i colori strani degli smalti per le unghie che la gente indossa. Adoro guardare i vecchietti sulla panchina e cercare di capire cosa mai stessero pensando di così profondo.
Arrivata al lavoro, mi precipito in reception, salutando velocemente Olimpia, la mia collega e migliore amica.
Siamo simili e diverse allo stesso tempo: è apparentemente timida e riservata, ma chi la conosce bene come me, sa che non è così. Non è di molte parole e comunque non ama raccontare di se, soprattutto quando conosce da poco le persone. Per il suo vissuto, ci impiega più tempo a fidarsi degli sconosciuti. Io, a differenza sua, parlo un po’ di più e quando conosco qualcuno o qualcuna, tolti i primi minuti di imbarazzo, inizio a raccontarmi, soprattutto se vengo ascoltata. Siamo caratterialmente simili, ma gestiamo le nostre emozioni in modo diverso: lei è la mente e io il cuore ed è per questo che la considero l’altra parte di me! Olimpia è alta poco più di un metro e mezzo, un corpo magro e senza forma alcuna, né seno né glutei. Da quando la conosco porta sempre lo stesso taglio di capelli, rossi e corti, nonostante la sua compagna sia una parrucchiera. Il suo viso è pieno di lentiggini. I suoi occhi cerulei sono sempre lucidi, come se fosse perennemente emozionata, e ha sempre un sorriso stampato che sembra quasi finto. Può sembrare che abbia l’aria di chi se la prende per qualsiasi cosa, ma in realtà non è così. Le tante vicissitudini che hanno segnato la sua vita hanno fatto sì che si sia cucita addosso un impermeabile grazie al quale le cose negative non riescono a penetrarla. Ricordo che quando si è dichiarata in azienda, il nostro capo è scoppiato in una sonora risata, ritenendo che l’omosessualità fosse una condizione psicologica, come essere infetti da un virus e che, soprattutto nel caso di Olimpia, ci sarebbe bastato lui a “guarirla”. Supponemmo che la sua fosse una battuta molto infelice e Olimpia, non accusò il colpo più di tanto. Non dà più peso alle battute degli altri sul fatto di non essere una bellezza, sulla sua scelta di essere vegetariana e sul suo orientamento sessuale.
Olimpia è una tipa davvero forte. A differenza mia, che punto sul corpo per camuffare le mie insicurezze, lei punta sulla sua anima per nascondere la sua fisicità.
Ci siamo conosciute anni fa, al liceo. Un ragazzo le faceva la corte e, quando scoprì che non era interessata al genere maschile, il bullo ebbe la brillante idea di scrivere sui muri “Olimpia M. è lesbica”. Lei ci rimase così male che trascorse il resto della giornata chiusa in bagno a piangere. Anch’io avevo letto questa frase, ma non sapevo chi fosse Olimpia M. Casualmente entrai in bagno e scoprii che la malcapitata era lei. Dopo averla convinta ad aprire la porta, ci sedemmo a terra e fra le lacrime mi disse: «Sì, sono lesbica.» Non potevo credere alle mie orecchie: nel terzo millennio, eravamo ancora costretti a dover vivere con l’incubo che amare una persona del proprio sesso fosse abominio!
Restammo a parlare a lungo e stringemmo un’amicizia che col passare degli anni divenne sempre più forte, fino a farci diventare come sorelle. Il fato, poi, ha voluto che diventassimo anche colleghe.
La “Emerging Stars” era da poco arrivata in città ed entrambe sostenemmo il colloquio con il signor Orlando lo stesso giorno. Decise così di assumerci entrambe, assieme a un altro ragazzo, Alviero.
È molto bello, Alviero. Alto, moro, occhi blu e un tatuaggio dietro l’orecchio sinistro che rappresenta una chiave di sol, data la sua passione per la musica. Tatuaggio che è nascosto dai suoi lunghi capelli, sempre ordinati. Il suo corpo è sinuoso: ogni cosa è al punto giusto, dal naso a patatina alle labbra belle marcate. Porta un pizzetto ben curato che ogni tanto vado a tirargli, sapendo che la cosa lo infastidisce. È un ragazzo romantico e dolce. Si emoziona facilmente e quando attacca a piangere non la smette più, sfociando nel ridicolo. È uno dei pochi uomini che conosco che sogna a occhi aperti: non vede l’ora di incontrare la donna giusta che lo faccia innamorare perdutamente.
Accendo il pc e inizio a leggere la valanga di mail di lavoro.
Stacco un attimo gli occhi dal computer per stirarmi il collo e, da lontano, scorgo il signor Orlando che mi osserva con i suoi occhi cupi. Vedo che con un gesto fulmineo della mano mi indica di andare nel suo ufficio.
A differenza di Olimpia, le cose, purtroppo, a me non scivolano addosso. Sarò sì caparbia, ma è anche vero che do troppa importanza alle parole. E l’ansia inizia a salire, ripensando a quanto è accaduto in mattinata.
Il suo ufficio non è distante, ma quei pochi metri per raggiungerlo li percorro con una paura addosso che mi sembra di poter rimettere l’intera colazione. Più mi avvicino a lui, più le gambe mi tremano.
Per qualche oscura ragione, quell’uomo inizia a spaventarmi. Mi sono bastati un suo sguardo e un suo cenno con la mano per capire che la situazione non è delle migliori.
Entro nel suo ufficio, cercando di sembrargli dolce e carina. Sto provando in tutti i modi a contenere le mie emozioni negative, ma proprio non ce la faccio. Sento i muscoli del viso irrigidirsi e la gola secca come un terreno arido.
«Si sieda, Clarissa, la prego.»
Faccio per sedermi, avvertendo un crescente disagio. Non so cosa stia accadendo, ma l’espressione sul suo volto è davvero imbarazzante: ha gli occhi socchiusi e sembra quasi che attraverso il suo sguardo voglia dimostrarmi tutto il suo splendore. La bocca, con quelle labbra sottili, è mezza spalancata e ha la punta della lingua sull’angolo destro delle labbra.
Sento una sensazione di viscido impossessarsi di me, come quelle lumache senza chiocciola che si trovano nei giardini quando piove. Abbasso lo sguardo per evitare di vedere tale schifo, ma sento che sta per accadere qualcosa di squallido.
Sprofondo nel comodo sgabello in cashmere adiacente alla sua scrivania e faccio per ascoltare la sua voce, che sembra cauta e quieta.
«Ciò che è accaduto stamane non deve ripetersi! Il suo atteggiamento è un chiaro segnale di disorganizzazione e indice di poca professionalità nei confronti dell’azienda, che il dieci di ogni mese le accredita lo stipendio. Poco rispetto per i suoi colleghi e poco rispetto per la mansione di cui è chiamata a occuparsi. Alla luce di questi fatti, la invito a rivedere le sue priorità. Io non posso far finta di nulla e sono propenso a prendere un provvedimento nei suoi riguardi.»
Mi sento morire. Anni e anni di duro lavoro per cercare di essere quanto più professionale possibile distrutti in poche parole. Vorrei tornare indietro nel tempo, salire sul bus delle 7:00 tutta bagnata e presentarmi al lavoro in condizioni improponibili, ma sono qui, seduta ad ascoltare, con un caos di emozioni e sensazioni in petto, e a cercare di capire ciò che il signor Orlando mi sta dicendo.
Sento la testa annebbiata, come se avessi fumato erba per tutta la giornata, e la mia mente viaggiare chissà dove. Il cuore mi batte forte, come un ghepardo mentre rincorre la sua gazzella.
Mi rendo conto che il mio capo si è spostato dietro di me e che ha delicatamente appoggiato le sue viscide mani sulla mia giacca verde acqua. Sento lo schifo invadere ogni angolo del mio corpo.
«Tuttavia – continua – un modo per compensare alle sue offese nei nostri riguardi ci sarebbe.»
Le sue mani scivolano in avanti, sulle mie braccia. Sento il calore del suo corpo e il suo membro appoggiarsi sulla schiena. Sono totalmente persa nel suo tatto e come inebriata dal suo pacatissimo tono di voce. Credo che se i serpenti potessero parlare avrebbero lo stesso timbro. Non capisco se quello che provo è solo ribrezzo o anche pietà.
«Lei è una donna, io sono un uomo e dato che è così…» prosegue, mentre le sue mani arrivano sul mio seno.
Me lo stringe forte, ma non provo nessun dolore. Il mio corpo si sta irrigidendo fra le sue mani. Lui ha il viso paonazzo, come il colore della sua cravatta. Respira ansimando e il suo alito mi si ripiega addosso.
Cerco di scostarmi in qualche modo, ma la pressione che sta esercitando sulla mia anima è talmente pesante che resto immobile, come un ceppo di legno. Avverto che l’ansia aumenta, ma provo a urlare a me stessa, nella mia testa, che non posso perdere il posto di lavoro. Devo mantenermi. A trent’anni non è facile trovare un altro lavoro e le bollette da pagare ci sono, come la spesa da fare, le sigarette e le uscite con le amiche. Lui continua ad ansimare e a massaggiare il mio seno, che ora sta cominciando ad avvertire dolore.
Mi faccio coraggio e stringo i denti. Inarco la testa sul lato destro. Da questa prospettiva noto che i suoi capezzoli sono turgidi, come se avesse due chiodi che stanno per uscire dalla camicia. Preferisco non guardare altro. Ho paura, troppa paura. Ribellarmi adesso significherebbe essere licenziata. Se mi lascio andare, evito che lui possa darmi qualche percossa nel tentativo di scappare. Pian piano sento il suo respiro fetido avvicinarsi al mio collo. Avverto la sua saliva attaccarsi su di esso, mentre mi passa una larga lingua fra il collo e l’orecchio sinistro. Provo a non pensare a quello che sta accadendo. Il mio corpo ormai è suo.

 

Colpevole!

«Signor Orlando!»
Una delle segretarie del settore pubblicitario l’ha appena chiamato da dietro la porta, bussando insistentemente. Lei non lo saprà mai, ma è la mia salvatrice.
Di scatto, come se per magia tutti miei muscoli fossero rinati a vita nuova, mi alzo dallo sgabello e mi do una sistemata repentina, cercando di non far sentire il battito del mio cuore alla ragazza.
La stessa cosa fa anche lui, giusto in tempo prima che la segretaria spalanchi la porta; il suo volto, però, è ancora paonazzo, ha la bava – coperta dai suoi baffetti – che gli esce da un lato della bocca e il suo membro è ancora ben in vista.
«Signore, scusi l’irruenza, ma l’inserviente all’ottavo piano è scivolato e abbiamo bisogno di lei.»
La giovane donna tiene lo sguardo abbassato, come se sapesse cosa sarebbe potuto accadere se lei non fosse entrata.
«Arrivo subito. Vada via!»
La segretaria esce di corsa lasciando aperta la porta. Lui mi osserva, come un cacciatore ammira la preda prima di darle il colpo finale.
«Grazie per la sua comprensione, Clarissa. Lei è molto… ricettiva. Per questa volta ci passo su, ma temo che abbiamo comunque un discorso in sospeso. Non faccia ulteriori ritardi.»
«No, signor Orlando. Non accadrà, può starne certo» rispondo ancora tremante con lo sguardo basso.
«Non pensa di dovermi delle scuse?» riprende con un sorriso crudele, come se godesse nel vedermi in quello stato di confusione.
«Certo, mi scusi. Chiedo scusa per oggi, a lei e ai miei colleghi. Rivedrò le mie priorità, glielo assicuro.»
«Bene! Buona giornata, Clarissa.»
«A lei, signor Orlando.»
Finalmente è tutto finito. Mi sento come se mi avessero svuotato nel mio essere donna. Sporca come se avessi venduto la mia anima al diavolo. Penso che per un attimo stavo cedendo alle avances di quel mostro. Mi stavo concedendo a lui.
In passato ho rifiutato di sfilare per non mostrare il mio corpo, ma intanto, ora, stavo diventando il giocattolo del mio titolare. Stavo dando più importanza a quel pacchetto di sigarette in meno piuttosto che alla mia dignità. Mi sento sbagliata e fuori luogo, come se ogni pensiero positivo fosse stato rigettato nella pattumiera e con esso anche ogni residuo di felicità. Sono sull’orlo di una crisi di nervi.
Bevo un sorso d’acqua, respiro a fondo e, prima di scoppiare a piangere, esco furtivamente da quello che è diventato l’ufficio degli orrori.
Mi risiedo alla mia postazione, indosso il sorriso migliore che posso e continuo la mia giornata.
«Cosa è successo, Clary?»
«Nulla di che, Olimpia. Il capo mi vuole più partecipe ai miei impegni lavorativi» mento spudoratamente, mentre Alviero mi allunga una tazza di caffè ginseng.
«Grazie. Dove andiamo a pranzo oggi?» chiedo per svicolare l’argomento.
«Pensavamo di andare da Reja a mangiare sushi. È il suo compleanno e le abbiamo preso un regalo. Ci stai?» risponde euforica Olimpia.
«Certo. Come potrei non partecipare al compleanno di Reja, la mia cinesina preferita!»
Sorrido forzatamente. La risata più stupida e finta che potessi fare.
In quell’istante passa il signor Orlando e ci comunica che, a causa di tutto lo straordinario che abbiamo accumulato nei giorni precedenti, possiamo godere del pomeriggio libero. A vederlo, sento nuovamente il cuore impazzire dalla nausea. Intorno a me percepisco il gelo più totale, ma fortunatamente il mio capo se ne va via di corsa, sale nella sua lussuosa auto e sparisce dalla nostra vista. Vorrei che sparisse veramente. Non ho mai desiderato la morte di un uomo come in questo momento.
Alle 12:30 ci ritroviamo al ristorante di Reja. Ordiniamo una quantità abominevole di sushi e, anche se il mio stomaco è in fiamme, cerco di buttare giù qualche bocconcino, facendo attenzione a non mangiare quelli all’avocado, riservati alla mia amica vegetariana.
Durante il pranzo, Olimpia e Alviero se la ridono guardando i video su un’applicazione del telefono, commuovendosi davanti alle immagini di un nubifragio non so dove e spettegolando sull’abito da sposa che indossavano alcune loro amiche in comune, immaginando cosa avrebbe indossato la futura e presunta moglie di Alviero.
Io sono assorta nei miei pensieri. Come può una donna essere trattata così? Come può un uomo comportarsi in quel modo? E io che pensavo che la storia dell’orco cattivo fosse solo un cartone animato per bambini e che i mostri esistessero solo nelle favole.
Invece l’orco ce l’ho avuto di fronte a me questa stessa mattina.
Ma forse mi sbaglio. E se fossi stata io a fare qualcosa di sbagliato? Sì, deve essere così. Forse è stato a causa dei tacchi alti, o di questa gonna al ginocchio che di tanto in tanto mi piace mettere. Sì! Probabilmente ho provocato il signor Orlando con il mio abbigliamento. Mi sento un verme solo a pensare che il mio modo di vestire abbia potuto provocare una tale reazione in un uomo. Il signor Orlando non avrebbe mai ceduto a queste tentazioni se io non avessi esaltato le mie forme, se io non mi fossi sentita una presenza fisica importante. Il mio titolare non sarà uno stinco di santo, ma, per quello che so, non si è mai permesso di toccare un capello a nessuna delle sue tre segretarie né a nessuna delle donne che lavorano per lui in generale. Avrà avuto il nervo debole in quel momento e il mio ritardo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Lui è sposato con Regina, che non sarà di certo il massimo della bellezza, ma è la donna più tosta che abbia mai conosciuto. Hanno anche tre figli meravigliosi. Quindi sì, la colpa è mia perché sono stata provocante.
Butto giù un altro sorso di birra cinese e mi guardo attorno.
«Va tutto bene, Clarissa?» chiede Alviero.
«Sì, sì, certo. Tutto alla grande. Sono solo un po’ stanca e vorrei approfittare di questo pomeriggio libero per andare al lago a rilassarmi. Anzi, se non vi dispiace, io andrei.»
Faccio per alzarmi e Olimpia, la cui testa sembra collegata con la mia, mi ferma: «Sei sicura di star bene? Non è che è successo qualcosa nello studio del capo? Non ti avrà mica licenziato? No, vero?»
Avrei voluto dirle tutto, anche del fatto che mi stavo autoconvincendo che la colpa fosse solo mia. Che mi sentivo piccola nelle mani di un orco.
Avrei voluto raccontarle del respiro del signor Orlando sul mio collo, delle sue mani sul mio seno, della sua lingua fra il collo e l’orecchio e che ho pagato caro il mio ritardo, ma mi trattengo e rispondo: «Ma figurati, Olimpia, cosa dici? No, davvero. Sono solo stanca e ho bisogno di andare a rilassarmi al lago.»
Ovviamente, quella del lago è solo una scusa. Voglio stare da sola. Ho bisogno di camminare e di non pensare a niente, anche se è davvero difficile. Voglio chiudermi a riccio e urlare nel mio cuore che sono appena stata vittima delle voglie di un uomo e che forse ne sono in parte colpevole. Mi alzo con un nodo in gola, bacio entrambi e vado alla cassa. Faccio gli auguri a Reja e pago l’intero conto. Non sono ricchissima, ma almeno un pranzo ai miei amici posso offrirlo.
Esco dal ristorante. Infilo le cuffie per ascoltare un po’ di musica e intanto mi accendo una sigaretta. Passeggio per il centro, senza destinazione né meta. Percorro la sponda destra dell’Adige e arrivo alla fermata dell’autobus. Da lontano osservo una coppia di fidanzatini scambiarsi effusioni amorose e penso a quanto sia bello l’amore. Quello fresco, genuino, sincero.
Non sono mai stata innamorata in vita mia. Ho avuto diverse relazioni, più o meno brevi: minimo una notte, massimo tre settimane. Avevo vent’anni, allora. Mia madre si era appena separata da mio padre, abbandonandoci entrambi, e avevo bisogno di avere una persona al mio fianco che mi facesse stare bene.
Conobbi Dora, una donna di dodici anni più grande di me. Era bella, molto bella: alta, paffuta, con i capelli tinti color lilla e gli occhi a mandorla di un nero intenso. Era bella fuori ma anche dentro. Un vero vulcano. Quando l’ho conosciuta, m’invitò a casa sua quella stessa sera. Non ero mai stata con una sconosciuta né tantomeno con una donna. Eppure c’era qualcosa in lei che mi attirava. Non so bene cosa, ma si era creata una certa alchimia fra noi due e finimmo a letto prima ancora di accendere la luce d’ingresso in casa sua. Siamo state insieme tre settimane. Non saprò mai se quell’attrazione sarebbe sfociata in amore, perché una fredda domenica mattina d’inverno Dora è stata uccisa durante una battuta di caccia: un colpo, esploso accidentalmente, ha stroncato la sua giovane vita.

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Mirko Nasi

Mirko Nasi nasce a Caserta nel 1990, ultimo di cinque figli. Dopo la maturità, intraprende un percorso di formazione in seminario e gli studi di filosofia. Spinto dalla volontà di essere d’aiuto agli altri, nel 2013 si trasferisce a Trento, dove inizia un’esperienza di volontariato in una cooperativa sociale. Realizzatosi in campo lavorativo, conosce Luca, con il quale si unisce civilmente nel 2018. Questo è il suo primo romanzo: un elogio alle donne che hanno fatto parte della sua vita e a tutte le donne vittime di violenza e discriminazione di genere.